24 aprile 2018
Oggi giornata all’insegna del riposo, o quasi.







24 aprile 2018
Oggi giornata all’insegna del riposo, o quasi.
Mucha è un nome forse poco conosciuto ai più, ma sicuramente lo stile inconfondibile delle sue stampe lo riconoscerete. Io ricordo vividamente l’immagine de l’Eclat du Jour, della serie Times of the Day (1899), stampata in una pagina di un libro di scuola- forse delle medie. Credo si essere stata principalmente attratta dalla posizione delle braccia e dall’espressione del viso della figura femminile e ricordo che tratteggiai la sua posa ferma e armonica su un foglio di carta.
Quel disegno fu uno dei primi che mi diede soddisfazione, quindi per me l’idea di visitare il Mucha Museum durante il mio soggiorno a Praga è stata davvero irresistibile.
Le pareti del museo raccontano la storia dell’artista ceco e di come acquisì fama grazie a Gismonda, il poster che gli fu commissionato per puro caso la notte di S.Stefano del 1894 da Sarah Bernhardt, famosa attrice parigina dell’epoca. L’uso innovativo della forma allungata per i poster gli permise di ritrarre attori e attrici – Sarah in particolare- a figura intera e di circondarli da decorazioni geometriche e floreali. Entrambi questi accorgimenti contribuirono a sancire il suo immediato successo. Da notare anche in molte opere il design del testo, chiaramente ispirato ai caratteri della scrittura ebraica.
Le figure femminili rappresentano un tema ricorrente nei lavori di Mucha, così come nell’Art Nouveau in generale. La cosiddetta femme nouvelle venne usata per scopi sia allegorici che decorativi in quanto celebrazione della femminilità come antidoto ad un presente moderno eccessivamente industrializzato, impersonale, e prettamente “maschile”.
I poster di Sarah e le sinuose silhouettes delle modelle incorniciate da decorazioni floreali adornano le pareti di buona parte del museo. Ma l’ultima sezione svela una sensibilità dell’artista alle questioni sociali e politiche del proprio paese d’origine quasi inaspettata.
Lasciata la Moravia, per formarsi a Vienna e a Monaco, Mucha si guadagna la propria fama tra Parigi, Chicago e New York. Gli verrà anche commissionato dall’impero Austro-ungarico il compito di creare delle decorazioni per l’Exposition Universelle di Parigi del 1900, per cui lo stesso governo gli finanzierà un viaggio nei Balcani. Proprio durante quel viaggio Mucha maturò l’idea di creare quello che per lui sarebbe stato il proprio capolavoro, la Slovanská epopej– una serie di venti enormi tele che raffigurano la storia delle popolazioni Ceche e Slave – esposta adesso al Veletržní Palace di Praga.
Mucha in queste tele si svela quindi un artista partecipe delle vicissitudini di una popolazione dalla storia molto complessa come quella slava, ne esalta le radici e tradizioni comuni, nonostante le differenze culturali e linguistiche. Anche l’arte diventa dunque un mezzo per unire, e mai dividere.
“The purpose of my work was never to destroy but always to create, to construct bridges, because we must live in the hope that humankind will draw together and that the better we understand each other the easier this will become.”
Alphonse Mucha
Cha no yu è il termine giapponese per indicare la famosa cerimonia del tè, e lettalmente significa “acqua calda per il tè“. Introdotta in Giappone sin dal XV secolo, la cerimonia era principalmente praticata dai samurai con lo scopo di mostrare con orgoglio le proprie ricche collezioni di ceramiche cinesi agli ospiti.
Il rito per come lo si conosce adesso invece, trova le proprie origini nel secolo successivo per mano del grande maestro del tè, Sen no Rikyu. Fu egli a definire i quattro pincipi essenziali del chanoyu: wa, kei, sei e jaku (armonia, rispetto, purezza e tranquillità).
La stanza del tè, come ci è stato spiegato da Clare Pollard, curatrice della sezione di arte giapponese dell’Ashmolean Museum, è costruita con cura e attenzione ad ogni dettaglio. Innanzitutto per accedervi è necessario percorrere un sentiero immerso nel verde. Nel vero senso della parola. Solo verde, nessun fiore colorato a distogliere lo sguardo, o a distrarre l’invitato. Un solo colore, per calmare la mente, farle abbandonare ogni pensiero mondano e prepararla alla cerimonia.
Così, dopo una breve introduzione storica, spiegazione del contesto e degli stumenti usati durante la cerimonia, il gruppo di curiosi amatori del Giappone casualmente riunitosi in occasione della dimostrazione, si sposta nella sala 36 del museo. Proprio lì è stato ricostruito, da maestri giapponesi e con materiali giapponesi, l’interno di una stanza del tè.
Materiali semplici e naturali danno forma ad un’ambiente monocromatico che a prima vista potrebbe sembrare spoglio e povero ma che racchiude in sè accuratezza nella composizione e nelle forme.
L’ospite non può distrarsi, la sua mente non può vagare e perdersi in futili pensieri. Ad adornare le pareti solo una stampa tradizionale, solitamente con proverbi o frasi conosciute, e un fiore. Rigorosamente fresco e di stagione.
Una signora giapponese, nella sua gentile e minuta figura ci mostra la cerimonia in tutti i suoi cadensati e lenti movimenti. Io, l’ospite sul tatami, quasi di fronte, la osservo. I problemi a lavoro, la ricerca di una carriera migliore, gli amici e i loro consigli, la mancanza di tempo… tutto sfuma. I miei occhi sono sulle sue piccole mani mentre danzano al ritmo del silenzio.
Il tè è una polvere verde che viene mischiata con acqua calda. Trovo che sappia di alga. Quindi in realtà mi piace. Fingo di ammirare, come da copione, la tazza, che non mi attrae particolarmente, e gli strumenti, che invece trovo finemente intagliati. Dopo l’ennesimo inchino, le spiegazioni della curatrice si diradano e la cerimonia si conclude. Aleggia nei nostri occhi il fascino dell’aver assistito ad un rito che, come tale, lascia un senso di rilassatezza e purezza. Lentamente, quasi stordito, il gruppo si dissolve e il singolo ritorna alla propria realtà.
Perché parlare nuovamente del Día de la Cruz?
Ottima domanda. Spulciando il web ho trovato un articolo interessante del prof. José A. González Alcantud che ho pensato di condividere e commentare.
Il professore granadino nella prima parte del testo riprende le vicende storiche e il simbolismo legato alla croce. Citando Santiago de la Vorágine ricorda come, prima della Passione di Cristo, la croce fosse stato sinonimo di codardia, villania, ignoranza, morte e cattivo odore perché rimandava a condizione, luogo e colpa di coloro i quali venivano crocifissi. Invece, con il Cristianesimo la croce acquista tutt’altro significato, viene esaltata e resa talmente nobile da cancellare le lugubri immagini che venivano ad essa associate anteriormente. Costantino, dopo la già citata apparizione della croce nel cielo della battaglia, la trasforma in simbolo imperiale, accrescendone, così, devozione e attacamento da parte dei fedeli.
Con il Concilio di Nicea, voluto dallo stesso Costantino, la Chiesa afferma la speranza escatologica della resurrezione, il cui simbolo diventa, paradossalmente, la croce, in origine simbolo di morte. Acquista ancora maggiore importanza, addirittura una connazione epica, durante i confronti armati contro il mondo islamico, conosciuti come Crociate, diventa, così, unico simbolo, sia grafico che lessicale, della Vera religione.
Diversamente, il mondo islamico sembra terrorizzato dall’idea della crocifissione di Gesù, tanto che la teologia mussulmana ha sostenuto che fosse stato, all’ultimo momento, sostituito sulla croce. Il professore cita L. Cardaillac, secondo il quale per i moriscos, mussulmani di Al-Andaluz costretti, dopo la resa con i Re Cattolici, a convertirsi al cristianesimo, è impensabile che Dio abbia potuto essere crocifisso. Nel XVI sec per i moriscos la croce rievoca la forza bruta che scatena in loro l’odio contro i cristiani e che li porterà a distruggerne i simboli soprattutto durante le sanguinose battaglie combattute, sotto i vessilli di due religioni distinte, tra le irte vette dell’Alpujarras. Sull’altro fronte, invece, i cristiani cercano di semantizzare il territorio con i simboli della nuova religione, tra i quali ovviamente spicca la croce.
Con l’imposizione forzosa della religione propugnata da re, Chiesa e soprattutto con le persecuzioni dell’Inquizione le croci acquisirono anche significati anti-islamici, e qui lo studioso riporta come esempio la croce di Santa Maria de la Alhambra posta nel luogo in cui vennero uccisi, per mano del re moro Mohamed VII, i frati, di origine araba, Pedro de Dueñas e Juan de Celestina.
Quindi risulta evidente la ragione dell’attaccamento alla croce di una città come Granada che per secoli ha avvertito la necessità di purificarsi, dimostrando la propria limpieza de sangre, e affermando la propria appartenenza alla religione cattolica nonostante la presenza di meravigliose costruzioni islamiche. Dice Gonzalez Alcantud
[…] levantar una cruz era obra de buenos cristianos, de cristianos viejos […]
Cacciati i mussulmani, la religiosissima festa della croce inizia a lasciare posto ad una festività profana, tant’è che la stessa gerarchia ecclesiastica si trovò a dover intervenire per porre fine ai disordini e ai numerosi peccati commessi durante la celebrazione. Questo carattere di festa profana della primavera si accentuò nel corso del XIX secolo. Del resto, anche adesso è facile riscontrare similitudini con le celebrazioni precristiane legate alla fertilità.
Nell’ultima parte dell’articolo lo studioso riflette sul presente e sui cambiamenti recenti. Con la crescita della città e il popolamento di zone limitrofe al centro lo spazio festivo è stato ridistribuito e anche l’aumento della popolazione studentesca ha influito nel cambiamento. Così la festività del Día de la Cruz, da fenomeno prettamente periferico, è diventato un fenomeno di sociabilidad típicamente urbana. Le croci, infatti, non sono più decorate da famiglie nelle campagne ma in città da bar, negozi, attività commerciali in genere, associazioni, ecc. Si è passati dalla sociabilidad campestre a quella cittadina che si dibatte tra “la soledad individual y la masa anónima”.
Per concludere con uno scorcio piacevole cito la descrizione del Día de la Cruz di Francisco de Paula Valladar, giornalista granadino del XIX-XX sec:
«Por fin es de noche. El amor, que gusta más de incierta luz que de los reflejos brillantes del sol, prepara sus ponzoñosas saetas. El baile comienza: ese poético baile de nuestro pueblo: el fandango, con sus versos intencionados, su sentida melancolía y su melancólico ritmo que el rasgueo de la guitarra sostiene»
Fino alla riforma liturgica del 1970 due feste celebravano il presunto miracolososo ritrovamento della Santa Croce: una, occidentale, il 3 maggio, consciuta con il nome di di Inventio Sanctae Crucis; l’altra, orientale il 14 settembre, conosciuta come Exaltatio Sanctae Crucis. Dopo la riforma, le due feste vennero unificate il 14 settembre, eppure in molti luoghi è rimasta la tradizione di festeggiare il 3 maggio.
L’origine di questo prodigioso ritrovamento risale all’epoca di Costantino I (Flavius Valerius Constantinus, 274 d.C. – 337 d.C.). La presunta conversione dell’imperatore venne immortalata dalle parole del vescovo Eusebio di Cesarea, suo collaboratore e autore di Vita Costantini. In tale testo viene raccontato, con tono alquanto scettico, dell’apparizione in cielo di una Croce e della scritta in hoc signo vinces durante una battaglia dell’imperatore contro Massenzio. Secondo fonti dell’epoca fu proprio Costantino ad inviare sua madre Elena (Flavia Iulia Helena) a ritrovare la vera croce su cui venne crociffo Gesù Cristo durante un viaggio presso i luoghi santi della Palestina tra il 326 ed il 328 d.C. I particolari del ritrovamento sono contenuti in innumerevoli fonti antiche, tra cui la Storia Ecclesiastica di Socrate Scolastico (nato nel 380 circa), la Storia Ecclesiastica di Sonzomeno (morto nel 450), e la Storia Ecclesiastica di Teodoreto (457 d.C.).
I tre racconti sembrano più o meno coincidere ma le storie tramandate differiscono sempre in qualche particolare. Generalemente concordano nel riferire che i resti della croce vennero rinvenuti durante degli scavi ordinati dalla madre dell’impertatore al fine di rinvenire il Santo Sepolcro. Trovate tre croci si presentò il problema del riconoscimento di quella di Cristo e, secondo alcune fonti fu la stessa Elena che, toccando la vera croce, si sentì rinvigorita; secondo altre vennero poste le croci a contatto con un cadavere che riprese vita dopo il contatto con la croce di Cristo; un’altra ancora dice che vennero toccate da una donna malata che guarì al contatto con la Vera croce, e così via.
Nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme, a Roma, costruita sul palatium Sessorianum appartenuto ad Elena, sono custodite delle reliquie che sarebbero state portate da Elena dalla Palestina, secondo la tradizione; oltre alla croce, infatti, Elena avrebbe trovato la croce di uno dei due ladroni, la spugna imbevuta d’aceto, parte della corona di spine, un chiodo della croce nonché il titulus crucis.
Dal Medioevo in poi vari pezzi della croce vennero, secondo la tradizione, letteralmente spezzati e inviati in numeroe chiese sparse nei territori europei. tant’è che già nel Medioevo stesso molti erano gli scettici sulla veridicità di tali reliquie. Ma il business (non troverei un termine atrettanto appropriato, se pur in tale contesto può apparire come un forestierismo forzato) delle reliquie era troppo allettante per non invitare chiunque, soprattutto ciarlatani, a vendere presunte reliquie (nonchè indulgenze, ma non divaghiamo!). Persino Calvino (Jehan Cauvin) nel suo Traité Des Reliques:
Non c’è un’abbazia così povera da non averne un esemplare [di reliquia della Croce]. In alcuni luoghi se ne trovano grossi frammenti, come nella Santa Cappella, a Parigi, a Polictiers, e a Roma, dove si dice che ne sia stato ricavato un crocifisso di discrete dimensioni. In breve, se tutti i pezzi ritrovati fossero raccolti, formerebbero un grande carico di nave. Tuttavia i Vangeli mostrano che poteva essere trasportata da un solo uomo.
Anche in Spagna giunsero le reliquie portando con sè culto e devozione del popolo. La celebrazione di tale giornata avviene in numerosi paesini e città della penisola. Tali riti sono accomunati dalla rappresentazione di una croce, a grandezza naturale o in miniatura, che viene adornata, che sia essa posta all’interno di un edificio o all’esterno, in piazze o in strade, con fiori e oggetti d’uso quotidiano. Balli e canti tradizionali coronano la festa.
Le origini religiose della festa sono dubbie, probabilmente, come ogni rappresentazione cattolica, anche questa, agli albori, si è appoggiata ed intrecciata con riti pagani che si celebravano da tempi immemorabili nel mese di maggio e che celebravano la natura attraverso l’adorazione degli alberi. Il senso originario di questa festa è essenzialmente naturalista: il benvenuto alla primavera, al nuovo ciclo naturale e il ringraziamento alla natura. Potremmo quindi ipotizzare, in modo forse leggermente avventato, che l’albero venne sostituito visivamente dall’immagine della croce.
La celebrazione annuale granadina oggigiorno è caratterizzata dall’allestimento per le strade, nelle vetrine dei negozi e nei patii, di croci di varia grandezza decorate, solitamente, da garofani rossi e bianchi. Tutt’intorno alla croce si allestisce una specie di altare adornato da preziose ceramiche, stoffe ricamate e arnesi della vita quotidina contadina che riecheggiano tempi passati. In ogni allestimento non può mancare un pero, termine locale e popolare che per indicare le mele (in castellano manzanas), infilzato da un paio di forbici. Questa composizione a prima vista eccentrica ha un significato sottile: tagliare ogni pero, ossia ogni ‘peró’, ogni ‘ma’. La croce può essere ammirata ma non criticata perchè i peró e i ma sono simbolicamente tagliati via.
Sotto la luce del sole spagnolo i colori sgargianti delle croci e delle decorazioni sembrano proprio inneggiare all’inizio della primavera.
In giro per la città, dopo l’inaugurazione nel patio del Municipio e la premiazione delle prime tre croci per categoria, iniziano spettacoli di flamenco e sevillanas, canti e balli di grandi e piccini. Per le strade ondeggiano ruches a pois, persino alcune bimbe in carrozzella vengono accuratamente vestite come ballerine di flamenco dalle mamme. Il folcklore viene esaltato e celebrato da tutti. Donne di ogni classe sociale vestite da gitanas passeggiano per le viuzze dell’antico mercato arabo sfoggiando uno dei simboli dell’incrocio tra le tre significative culture (araba, gitana e cristiana) che hanno segnato la storia di Granada e hanno dato vita all’arte flamenca.
Visitare Granada durante questa festa è una tappa imperdibile per poter assaporare il forte senso di appartenenza ad una tradizione campestre e multiculturale di una cittadinanza storicamente e antropologicamente composita che vive le modernità del XXI sec.
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